di Alessandra Vitullo
Quando ormai l’incombenza della crisi economica aveva avuto la meglio su di me, mi capita tra le mani questo libro: La globalizzazione che funziona, di Joseph E. Stiglitz. Allego curriculum: Joseph E. Stiglitz è uno dei più influenti studiosi nell’ambito dell’economia internazionale. Premio nobel per l’Economia nel 2001; membro e poi presidente del Consiglio dei consulenti economici durante il primo mandato di Bill Clinton; Senior vice-president e Chief economist alla Banca mondiale.
Lavorando per la Casa Bianca dal 1997 al 2000, Stiglitz ha avuto l’opportunità di essere quotidianamente a contatto con l’imprevedibile evolversi dell’economia mondiale. Gli anni Novanta sono stati, infatti, uno dei decenni più destabilizzanti per le politiche economiche internazionali: la crisi finanziaria dell’Est-asiatico, la transizione dell’ex-Unione Sovietica dal comunismo all’economia di mercato… Per non parlare di tutto il contesto politico che ne derivò: attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre, la conseguente lotta al terrorismo e la guerra in Iraq, l’emergere della Cina e dell’India sullo scacchiere economico mondiale.
Travolto e stravolto dalla realtà che ogni giorno doveva cercare di gestire, controllate, analizzare e prevedere, Stiglitz decise di abbandonare la Casa bianca, per entrare a far parte, prima, della Banca mondiale e successivamente per dedicarsi all’insegnamento presso Columbia University:
Quando ero in procinto di lasciare la Casa Bianca, per entrare nella Banca Mondiale, il presidente Bill Clinton mi chiese di restare in qualità di presidente del suo Consiglio di consulenti economici e membro del suo gabinetto. Declinai l’offerta perché ritenevo che fosse molto più importante elaborare politiche e programmi in grado di fare qualcosa per risolvere il problema della povertà estrema che affligge il mondo meno sviluppato.
Da questo momento in poi, la sua professione, che all’inizio lo schierava dalla parte dei tecnocrati, viene messa al servizio di un interesse comune: quello di informare, coloro che non hanno la possibilità di sedersi nelle stanze dei bottoni, su che cosa accade al di sopra delle loro teste, su chi tesse le fila, e soprattutto come, dell’intera economia mondiale.
Ma ripartiamo dal titolo dell’opera, in lingua originale: Making Globalisation Working, a differenza della versione italiana, nel titolo in madrelingua, da subito si intuisce l’intento che l’autore vuole dare al testo: spingere il lettore verso una riflessione più profonda sulla globalizzazione, non contrastarla o rinnegarla a priori, poiché la globalizzazione è la direzione in cui inevitabilmente ci porta lo sviluppo; imparare, però, a non assimilarla solamente alla standardizzazione, o all’omologazione. Tutti noi siamo consapevoli di quante tragedie e ingiustizie è stata artefice: l’aumento della povertà del Terzo Mondo, lo sfruttamento ambientale… ma d’altro canto, se noi ci impegnassimo a “farla funzionare”, la globalizzazione “sana” potrebbe anche significare la globale, equa e giusta, condivisione di ricchezza e cultura.
Ma attenzione: l’opera di Stiglitz non vuole restare un messaggio messianico di salvezza, lungi dal gettare false speranze o metodi semplicistici di realizzazione del migliore dei mondi possibili, l’approccio dell’autore resta quello dello specialista che analizza e studia particolari fattispecie e che per ognuna di esse propone una miriade di soluzioni concretamente realizzabili.
Non si parla di semplice boicottaggio delle multinazionali, o di campagne di raccolta firme, le soluzioni proposte da Stiglitz sono complesse e delicate e non riguardano solo noi cittadini, il libro è infatti un monito soprattutto per chi ha il potere materiale di attuare le politiche economiche.
Sradicarsi dall’idolatria del capitalismo, inteso come unica soluzione di politica economica, sganciarsi dalla dipendenza degli umori statunitensi che hanno innescato una logica di mercato svincolata da qualsiasi obbligo morale. La presa di coscienza del fallimento del liberalismo economico, della evocativa “mano invisibile”di Adam Smith, sono ormai palesi: l’inefficacia e l’anacronismo dell’autoregolamentazione e dell’autosufficienza del mercato hanno generato solo ineguaglianza sociale ed economica. La necessità di ritrovare un giusto equilibrio tra pubblico e privato, quello per cui Stiglitz si è sempre battuto, lavorando alla Casa Bianca. Informare correttamente i cittadini sulle politiche economiche adottate dagli Usa, e conseguentemente da Europa e da tutti gli altri enti economici mondiali. Combattere la corruzione e i conflitti; assicurare la trasparenza nei rapporti economici tra paesi in via di sviluppo e potenze mondiali; ridurre la vendita delle armi; certificare la provenienza di alcuni prodotti di valore, come oro e diamanti, troppo spesso sporchi di sangue; incaricare enti internazionali, come la Banca Mondiale, di imporre un’etica d’impresa alle multinazionali che si insediano nei paesi in via di sviluppo, utilizzando dure sanzioni economiche e legali, le stesse pene valgano anche per quegli stati che deturpano e saccheggiano l’ambiente. Secondo Stiglitz, solo così l’uomo potrà dominare realmente il mercato e non a esserne dominato. Queste sono solo alcune soluzioni che si possono trovare nel testo di Stiglitz, strategie che potrebbero far sì che non siano sempre e solo quei pochi a trarre guadagno dalla globalizzazione, mentre lasciano ai più solo speculazione, inquinamento e sfruttamento.
Parole che non sono deliri di un’idealista, ma che hanno riscontrato un’eco proprio tra primi rivali di Stiglitz: in particolare modo, nelle politiche del Fmi, che ha concordato sul moderare l’incontrollata circolazione dei capitali speculatici, poiché ritenuta estremamente dannosa per i mercati.
Particolare attenzione Stiglitz la dà anche quei lenti ma sensibili mutamenti internazionali, come ad esempio lo spostamento dell’asse economico verso quei paesi come Brasile, India o Cina. Per quanto ancora l’Occidente potrà continuare a pensare che il Terzo Mondo resterà ai margini dell’economia mondiale? Che continui ad essere il pozzo dei desideri dell’Occidente? Il disinteressamento europeo, ma soprattutto quello americano, al benessere del vicinato, perché non inteso come benessere comune, ha portato solo al collasso economico, di cui oggi viviamo lo scottante “ve l’avevo detto” dell’autore.
Cercare nuove forme di economia possibili, dunque, e per chi ancora pensasse che si sta parlando del mondo dei se e dei ma, Stiglitz offre un vasto elenco di best practices: nel 2001, l’Europa ha aperto unilateralmente i propri mercati ai paesi più poveri del mondo, abolendo quasi tutti i dazi doganali e le restrizioni commerciali, senza chiedere in cambio concessioni politiche o economiche, in questo modo, da una parte, ha avvantaggiato tutti i consumatori europei, che hanno visto l’abbassarsi dei prezzi e l’aumentare della varietà dei prodotti, dall’altra le industrie del Terzo Mondo, che prima di allora non esportavano a causa degli elevati tassi presenti alle dogane. Sempre in Europa: in Norvegia il petrolio rappresenta il 20% del Pil e il 45% delle esportazioni; la compagnia petrolifera di Stato è efficiente, ma la cosa più importante è che il Paese ha preso atto della limitatezza delle proprie risorse: si prevede, infatti, che il gas e il petrolio finiranno tra circa settant’anni; il Governo ha quindi messo da parte un fondo di stabilizzazione, qualcosa come 150 miliardi di dollari, circa il 50% del Pil attuale, che servirà da paracadute all’economia nazionale quando il Pil di tutti gli altri stati precipiterà dietro ai costi del greggio. Il Botswana, sebbene recentemente devastato dall’Aids, è uno dei pochi paesi del Terzo Mondo che sia riuscito a condurre una politica economica oculata, specie se si considera come ha saputo gestire la sua unica grande ricchezza: i diamanti; l’economia del paese è cresciuta in media del 9% negli ultimi trenta anni (quasi quanto le Tigri Asiatiche), con un governo democratico ed istituendo un fondo di stabilizzazione che serve ad affrontare la forte volatilità dei prezzi dei diamanti.
A dispetto di coloro che credono che la felicità si misuri solo in base alla ricchezza, il re del Buthan ha espresso il concetto di “Felicità nazionale lorda”, illustrando il proprio tentativo di individuare strategie di crescita in grado di migliorare l’istruzione, la salute e la qualità della vita nelle zone rurali, oltre che nelle città. I governi dell’est asiatico hanno capito che il successo richiede stabilità sociale e politica, e che questa a sua volta, richieda livelli occupazionali elevati e disuguaglianze minime, quindi oltre a scoraggiare i consumi eccessivi, ha anche trattenuto le disparità salariali: in Cina, almeno nelle prime fasi di sviluppo, gli alti dirigenti venivano pagati non più del triplo di un normale dipendente. Ma forse uno degli esempi più suggestivi e che potrebbero infondere speranza anche nei più scettici, è la storia della banca del microcredito bangladese Brac (una Ong), la quale concede credito solo alle donne povere che vivono nelle zone rurali, poiché ritenute molto più affidabili nella restituzione dei prestiti, di coloro che vivono nelle grandi città; nella fattispecie, con il suo credito, la Brac permise a queste donne di comprare dei pulcini per tirar su un allevamento di polli; in un primo momento molti pulcini non sopravvissero più di qualche giorno, di conseguenza la Brac, invece di abbandonare l’impresa, istituì un progetto per allevare i pulcini, i quali dopo essere diventati abbastanza grandi da sopravvivere, venivano dati all’allevamento gestito dalle donne del villaggio; creò in questo modo una catena di allevamento di pulcini, polli, uova, incrementando l’occupazione e il benessere in un posto precedentemente ridotto in un terribile stato di miseria.
La globalizzazione che funziona, non può essere definito un semplice saggio d’economia, infatti è un vero e proprio manuale didattico: spiega con estrema facilità quei termini e quegli argomenti che sempre più frequentemente riempiono le pagine dei nostri giornali, ma che pochi di noi hanno interesse nell’approfondire. Problemi che ci sembrano lontani, di impossibile risoluzione, ma il vero problema è che ci hanno abituati a considerarli così. È questo quello che Stiglitz tenta di dirci: niente di tutto ciò è arcano, oscuro, lontano, il più grande danno e inganno che ci viene fatto sta proprio nell’atteggiamento di opulenza ed impotenza che ci hanno abituato a sostenere di fronte a queste cruciali tematiche, che in realtà sono le prime a compromettere il nostro benessere quotidiano.
Leggere Stiglitz almeno per dare forma a quella disordinata nebulosa di idee che abbiamo sull’argomento globalizzazione, sul perché sappiamo che non si sta trasformando in un bene, ma piuttosto in male profondo che attanaglia il nostro futuro. Ma cosa ancor più importante è rendersi conto di come il modificare la nostra singola condotta possa rappresentare un bene per la collettività, in primis diffondendo la conoscenza di opere come questa.