lunedì 20 giugno 2011

Interpretare Pontida con le vespe di Panama

di Paolo D'alessandro

Mentre alcune migliaia di sostenitori danno vita, come ogni anno, al rituale raduno leghista di Pontida, il sottoscritto cerca, invano, di trovare stimoli allo studio. Il tentativo, seppur caparbio, si rivela un totale fallimento; per questo, dopo aver passato in rassegna, per l'ennesima volta, le principali news propinate dalla rete, decido finalmente di dare un senso a questa giornata, condividendo con voi lettori un piccola riflessione.

Lo spunto è una piccolo testo di Zygmunt Bauman intitolato Le vespe di Panama. Il testo non è in vendita, in quanto non è altro che un piccolo omaggio al noto sociologo da parte dell'editrice Laterza (casa che pubblica le sue opere in Italia) in occasione della sua partecipazione alla fiera del libro di Torino nel 2007. L'opuscolo è scaricabile gratuitamente online.

Il richiamo iniziale a Pontida non fu casuale, ma sostanzialmente legato al contenuto di questa riflessione.Nella sua dissertazione Bauman prende spunto da una ricerca effettuata da un gruppo di ricercatori della Zoological Society of London volto ad analizzare, usando tecnologie all’avanguardia, i processi di interazione e la vita sociale delle vespe, tipico esempio di “insetto sociale”.

Nessuno, tanto meno gli “zoologi più esperti”, ha mai messo in discussione il fatto che queste comunità di insetti regolassero la propria vita sulla base di una socialità limitata ai soli membri della colonia di appartenenza.

Oltretutto la possibilità “...che qualche ape o vespa operaia varchi i confini che dividono una colonia dall’altra, abbandoni l’alveare di nascita per unirsi ad un altro alveare era considerata come un’idea incongrua, perché i membri natii della colonia avrebbero prontamente scacciato il cane sciolto, eliminandolo se questi avesse rifiutato di allontanarsi.”.

Questa convinzione non è mai stata messa in discussione. La ricerca, condotta a Panama, ha invece dimostrato come il 56% delle vespe prese in considerazione, cambia alveare nel corso della vita, e non “semplicemente traslocando in altre colonie in qualità di visitatori temporanei, male accetti, discriminati e marginalizzati, e, a volte attivamente perseguitati ”, ma al contrario come “...membri effettivi della «comunità» adottiva, che provvedono, al pari delle operaie «autoctone», a raccogliere cibo e a nutrire e accudire la nidiata locale”.

La ricerca dimostra quindi che NORMALMENTE gli alveari sono composti da popolazioni “miste” autonomamente in grado di gestire i flussi di scambio tra le varie comunità; oltretutto “senza bisogno di ricorrere a commissioni governative, disegni di legge frettolosamente introdotti, corti supreme e centri di permanenza temporanea per richiedenti asilo...

Questo risultato è stato possibile, grazie all'azione del gruppo di giovani scienziati, i quali erano scevri per natura dalle “mappe cognitive” degli entomologi di vecchia generazione. Questi giovani rappresentano la stessa evoluzione che Bauman ritrova nel passaggio “...nella storia degli Stati moderni, dalla fase del nation-building alla fase «multiculturale».”

“Più in generale il passaggio dalla modernità «solida», dedita a trincerare e fortificare il principio della sovranità territoriale, esclusiva e indivisibile, e a circondare i territori sovrani con frontiere impermeabili, alla modernità «liquida», con le sue linee di confine sfocate e altamente permeabili, un’inarrestabile (anche se lamentata, malvista, combattuta) svalorizzazione del territorio e un intenso traffico umano attraverso qualsiasi tipo di frontiera.”

Il discorso di Bauman prosegue poi concentrandosi sul ruolo decadente riservato alle comunità chiuse, propriamente gli stati nazionali, in virtù di una crescente e inarrestabile funzione svolta dalla “rete”, intesa come luogo di relazione delle individualità; e allo stesso tempo sulla trasformazione delle strutture sociali in strutture sempre più autonome rispetto al centro, ormai privo della sua originaria capacità coercitiva.

Concetti che ci riportano a riflettere sul ruolo e sulle prospettive politiche che interessano quel migliaio di sostenitori che a Pontida stanno reclamando una romantica, quanto ipotetica, secessione.

Nella realtà contemporanea molti concetti tradizionali hanno perso il loro valore esplicativo; è così che al concetto di rivoluzione si sostituisce quello di lotte per il riconoscimento, perchè “la posta in palio delle lotte in corso non è più la forma del mondo che verrà, ma la possibilità di avere un posto tollerabile e tollerato in quel mondo: non sono più in palio le regole del gioco, ma unicamente l’ammissione al tavolo da gioco.”

La contemporaneità spinge inesorabilmente a ri-valutare la posizione occupata da ciascuno all'interno del “gioco”. L'individuo acquisisce una rilevanza del tutto nuova attraverso la rete, che diversamente dai gruppi sociali tradizionali, è incentrata e legata indissolubilmente all'individuo, che ne rappresenta il perno.

Ed è proprio nelle reti di individui che si manifesta il tratto caratteristico della società contemporanea, ossia quella liquidità che smantella il binomio inclusione-esclusione.

Non considerazioni di valore politico quindi, ma solo la constatazione di un processo già in atto. E mentre Pontida e l'intero arco costituzionale ancora bisticciano su ministeri e debacle elettorali, e il sottoscritto è ancora alla ricerca della concentrazione perduta, l'analisi di Bauman trova oggi concreto riscontro, in Italia naturalmente, nella colorata e vincente volontà referendaria, dimostrando come la “fluidità delle reti” non si limiti ad essere solo un'astratta interpretazione teorica.

lunedì 9 maggio 2011

La strada verso l'illuminazione parte da: La saggezza dell'innocenza

di Fabio Attura


Nella mia Comune Buddha riderà e danzerà, Cristo riderà e danzerà. Poveretti, nessuno ha permesso loro di farlo, finora! Abbiate compassione di loro, lasciateli danzare, cantare e suonare. La mia Comune trasformerà il lavoro in gioco, trasformerà la vita in amore e risate.


Con questa frase l'indiano Rajneesh, più conosciuto sotto il nome di Osho, ha spiegato a un suo discepolo la sua visione della “Nuova Comune”, definita da lui stesso come un "esperimento di comunismo spirituale", raggiungibile soltanto attraverso la meditazione, tema del libro La saggezza dell'innocenza.

"Osho, mai nato e mai morto, ha solo visitato il pianeta dal dicembre 1931 al gennaio 1990"; con questa definizione l'autore eliminò la necessità di stendere una sua autobiografia, ma che da me vi sarà comunque proposta, poichè emblema del suo percorso intellettuale, che si tramutò in spirituale.

Laureato in filosofia nel 1956, Osho proseguì la sua carriera universitaria come professore al Sanskrit College di Rajpur prima, e come docente di Filosofia, presso l'università di Jabalpur in India; ma solo agli inizi degli anni '60 si sentì pronto per intraprendere un lavoro diverso: un lavoro volto ad aiutare gli altri uomini a condividere la sua stessa esperienza della pace interiore, meglio conosciuta come illuminazione, da lui raggiunta, precisamente il 21 marzo 1953, e così raccontataci:

L'istante in cui la goccia si fonde nell'oceano, nell'attimo stesso in cui l'oceano si riversa nella goccia.

Da questo momento in poi, tenterà di insegnare ciò che non potrà mai essere insegnato. Comincia nel 1964 ad organizzare campi di meditazione che aiutassero a cogliere quel "silenzio oltre i silenzi", in cui la natura si manifesta nell'esplosione di un'esperienza indubitabile.

Nel 1966 abbandona totalmente la carriera universitaria e si stabilisce a Bombay, dando vita ad un Ashram, o comunità spirituale, che verrà trasferita a Pune, città nella quale è ambientato l'intero racconto, il 21 marzo 1974, in occasione del ventunesimo anniversario dalla sua illuminazione.

Il suo insegnamento, tutt'ora trasmesso dai neo Sannyasi della tradizione induista, è il culmine e lo stadio finale dell'esistenza, raggiunto il quale, occorre rinunciare ai beni materiali per dedicarsi interamente al proprio cammino spirituale.

Ne La saggezza dell'innocenza, Osho affronta un dialogo con i suoi discepoli, giunti da tutto il mondo a Pune, proprio per intraprendere il loro cammino spirituale, sotto la guida del maestro.

Varie sono le domande proposte dai suoi seguaci: sull'anima, l'amore, la fede... damande a cui può rispondere solo l'esperienza e la meditazione del Maestro.

Amato maestro, potresti dire qualcosa sulla famosa frase di Nietzsche: Dio è morto?

Alla domanda che tutti gli uomini si pongono, seppure in termini diversi, Osho risponderà con una semplicità disarmante, a cui solo la lucidità dell'intelletto può portare, una chiarezza che percorre l'intero testo e che può donarci almeno pochi istanti di illuminazione:

Nietzsche afferma che Dio è morto, questo significa che prima era vivo. Per quanto ne so io, non è mai stato vivo. Come può Dio essere morto se non è mai stato vivo? Dio non è una persona, perciò non può essere vivo, né morto. Per me Dio è la vita stessa! Dio è sinonimo di esistenza, di conseguenza non puoi dire che sia vivo o che sia morto. Dio è vita! E la vita è da sempre, per sempre... non ha interruzione, è eterna, non ha principio né fine.

domenica 10 aprile 2011

Far funzionare la globalizzazione: l’unica strada per il futuro

di Alessandra Vitullo

Quando ormai l’incombenza della crisi economica aveva avuto la meglio su di me, mi capita tra le mani questo libro: La globalizzazione che funziona, di Joseph E. Stiglitz. Allego curriculum: Joseph E. Stiglitz è uno dei più influenti studiosi nell’ambito dell’economia internazionale. Premio nobel per l’Economia nel 2001; membro e poi presidente del Consiglio dei consulenti economici durante il primo mandato di Bill Clinton; Senior vice-president e Chief economist alla Banca mondiale.

Lavorando per la Casa Bianca dal 1997 al 2000, Stiglitz ha avuto l’opportunità di essere quotidianamente a contatto con l’imprevedibile evolversi dell’economia mondiale. Gli anni Novanta sono stati, infatti, uno dei decenni più destabilizzanti per le politiche economiche internazionali: la crisi finanziaria dell’Est-asiatico, la transizione dell’ex-Unione Sovietica dal comunismo all’economia di mercato… Per non parlare di tutto il contesto politico che ne derivò: attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre, la conseguente lotta al terrorismo e la guerra in Iraq, l’emergere della Cina e dell’India sullo scacchiere economico mondiale.

Travolto e stravolto dalla realtà che ogni giorno doveva cercare di gestire, controllate, analizzare e prevedere, Stiglitz decise di abbandonare la Casa bianca, per entrare a far parte, prima, della Banca mondiale e successivamente per dedicarsi all’insegnamento presso Columbia University:

Quando ero in procinto di lasciare la Casa Bianca, per entrare nella Banca Mondiale, il presidente Bill Clinton mi chiese di restare in qualità di presidente del suo Consiglio di consulenti economici e membro del suo gabinetto. Declinai l’offerta perché ritenevo che fosse molto più importante elaborare politiche e programmi in grado di fare qualcosa per risolvere il problema della povertà estrema che affligge il mondo meno sviluppato.

Da questo momento in poi, la sua professione, che all’inizio lo schierava dalla parte dei tecnocrati, viene messa al servizio di un interesse comune: quello di informare, coloro che non hanno la possibilità di sedersi nelle stanze dei bottoni, su che cosa accade al di sopra delle loro teste, su chi tesse le fila, e soprattutto come, dell’intera economia mondiale.

Ma ripartiamo dal titolo dell’opera, in lingua originale: Making Globalisation Working, a differenza della versione italiana, nel titolo in madrelingua, da subito si intuisce l’intento che l’autore vuole dare al testo: spingere il lettore verso una riflessione più profonda sulla globalizzazione, non contrastarla o rinnegarla a priori, poiché la globalizzazione è la direzione in cui inevitabilmente ci porta lo sviluppo; imparare, però, a non assimilarla solamente alla standardizzazione, o all’omologazione. Tutti noi siamo consapevoli di quante tragedie e ingiustizie è stata artefice: l’aumento della povertà del Terzo Mondo, lo sfruttamento ambientale… ma d’altro canto, se noi ci impegnassimo a “farla funzionare”, la globalizzazione “sana” potrebbe anche significare la globale, equa e giusta, condivisione di ricchezza e cultura.

Ma attenzione: l’opera di Stiglitz non vuole restare un messaggio messianico di salvezza, lungi dal gettare false speranze o metodi semplicistici di realizzazione del migliore dei mondi possibili, l’approccio dell’autore resta quello dello specialista che analizza e studia particolari fattispecie e che per ognuna di esse propone una miriade di soluzioni concretamente realizzabili.

Non si parla di semplice boicottaggio delle multinazionali, o di campagne di raccolta firme, le soluzioni proposte da Stiglitz sono complesse e delicate e non riguardano solo noi cittadini, il libro è infatti un monito soprattutto per chi ha il potere materiale di attuare le politiche economiche.

Sradicarsi dall’idolatria del capitalismo, inteso come unica soluzione di politica economica, sganciarsi dalla dipendenza degli umori statunitensi che hanno innescato una logica di mercato svincolata da qualsiasi obbligo morale. La presa di coscienza del fallimento del liberalismo economico, della evocativa “mano invisibile”di Adam Smith, sono ormai palesi: l’inefficacia e l’anacronismo dell’autoregolamentazione e dell’autosufficienza del mercato hanno generato solo ineguaglianza sociale ed economica. La necessità di ritrovare un giusto equilibrio tra pubblico e privato, quello per cui Stiglitz si è sempre battuto, lavorando alla Casa Bianca. Informare correttamente i cittadini sulle politiche economiche adottate dagli Usa, e conseguentemente da Europa e da tutti gli altri enti economici mondiali. Combattere la corruzione e i conflitti; assicurare la trasparenza nei rapporti economici tra paesi in via di sviluppo e potenze mondiali; ridurre la vendita delle armi; certificare la provenienza di alcuni prodotti di valore, come oro e diamanti, troppo spesso sporchi di sangue; incaricare enti internazionali, come la Banca Mondiale, di imporre un’etica d’impresa alle multinazionali che si insediano nei paesi in via di sviluppo, utilizzando dure sanzioni economiche e legali, le stesse pene valgano anche per quegli stati che deturpano e saccheggiano l’ambiente. Secondo Stiglitz, solo così l’uomo potrà dominare realmente il mercato e non a esserne dominato. Queste sono solo alcune soluzioni che si possono trovare nel testo di Stiglitz, strategie che potrebbero far sì che non siano sempre e solo quei pochi a trarre guadagno dalla globalizzazione, mentre lasciano ai più solo speculazione, inquinamento e sfruttamento.

Parole che non sono deliri di un’idealista, ma che hanno riscontrato un’eco proprio tra primi rivali di Stiglitz: in particolare modo, nelle politiche del Fmi, che ha concordato sul moderare l’incontrollata circolazione dei capitali speculatici, poiché ritenuta estremamente dannosa per i mercati.

Particolare attenzione Stiglitz la dà anche quei lenti ma sensibili mutamenti internazionali, come ad esempio lo spostamento dell’asse economico verso quei paesi come Brasile, India o Cina. Per quanto ancora l’Occidente potrà continuare a pensare che il Terzo Mondo resterà ai margini dell’economia mondiale? Che continui ad essere il pozzo dei desideri dell’Occidente? Il disinteressamento europeo, ma soprattutto quello americano, al benessere del vicinato, perché non inteso come benessere comune, ha portato solo al collasso economico, di cui oggi viviamo lo scottante “ve l’avevo detto” dell’autore.

Cercare nuove forme di economia possibili, dunque, e per chi ancora pensasse che si sta parlando del mondo dei se e dei ma, Stiglitz offre un vasto elenco di best practices: nel 2001, l’Europa ha aperto unilateralmente i propri mercati ai paesi più poveri del mondo, abolendo quasi tutti i dazi doganali e le restrizioni commerciali, senza chiedere in cambio concessioni politiche o economiche, in questo modo, da una parte, ha avvantaggiato tutti i consumatori europei, che hanno visto l’abbassarsi dei prezzi e l’aumentare della varietà dei prodotti, dall’altra le industrie del Terzo Mondo, che prima di allora non esportavano a causa degli elevati tassi presenti alle dogane. Sempre in Europa: in Norvegia il petrolio rappresenta il 20% del Pil e il 45% delle esportazioni; la compagnia petrolifera di Stato è efficiente, ma la cosa più importante è che il Paese ha preso atto della limitatezza delle proprie risorse: si prevede, infatti, che il gas e il petrolio finiranno tra circa settant’anni; il Governo ha quindi messo da parte un fondo di stabilizzazione, qualcosa come 150 miliardi di dollari, circa il 50% del Pil attuale, che servirà da paracadute all’economia nazionale quando il Pil di tutti gli altri stati precipiterà dietro ai costi del greggio. Il Botswana, sebbene recentemente devastato dall’Aids, è uno dei pochi paesi del Terzo Mondo che sia riuscito a condurre una politica economica oculata, specie se si considera come ha saputo gestire la sua unica grande ricchezza: i diamanti; l’economia del paese è cresciuta in media del 9% negli ultimi trenta anni (quasi quanto le Tigri Asiatiche), con un governo democratico ed istituendo un fondo di stabilizzazione che serve ad affrontare la forte volatilità dei prezzi dei diamanti.

A dispetto di coloro che credono che la felicità si misuri solo in base alla ricchezza, il re del Buthan ha espresso il concetto di “Felicità nazionale lorda”, illustrando il proprio tentativo di individuare strategie di crescita in grado di migliorare l’istruzione, la salute e la qualità della vita nelle zone rurali, oltre che nelle città. I governi dell’est asiatico hanno capito che il successo richiede stabilità sociale e politica, e che questa a sua volta, richieda livelli occupazionali elevati e disuguaglianze minime, quindi oltre a scoraggiare i consumi eccessivi, ha anche trattenuto le disparità salariali: in Cina, almeno nelle prime fasi di sviluppo, gli alti dirigenti venivano pagati non più del triplo di un normale dipendente. Ma forse uno degli esempi più suggestivi e che potrebbero infondere speranza anche nei più scettici, è la storia della banca del microcredito bangladese Brac (una Ong), la quale concede credito solo alle donne povere che vivono nelle zone rurali, poiché ritenute molto più affidabili nella restituzione dei prestiti, di coloro che vivono nelle grandi città; nella fattispecie, con il suo credito, la Brac permise a queste donne di comprare dei pulcini per tirar su un allevamento di polli; in un primo momento molti pulcini non sopravvissero più di qualche giorno, di conseguenza la Brac, invece di abbandonare l’impresa, istituì un progetto per allevare i pulcini, i quali dopo essere diventati abbastanza grandi da sopravvivere, venivano dati all’allevamento gestito dalle donne del villaggio; creò in questo modo una catena di allevamento di pulcini, polli, uova, incrementando l’occupazione e il benessere in un posto precedentemente ridotto in un terribile stato di miseria.

La globalizzazione che funziona, non può essere definito un semplice saggio d’economia, infatti è un vero e proprio manuale didattico: spiega con estrema facilità quei termini e quegli argomenti che sempre più frequentemente riempiono le pagine dei nostri giornali, ma che pochi di noi hanno interesse nell’approfondire. Problemi che ci sembrano lontani, di impossibile risoluzione, ma il vero problema è che ci hanno abituati a considerarli così. È questo quello che Stiglitz tenta di dirci: niente di tutto ciò è arcano, oscuro, lontano, il più grande danno e inganno che ci viene fatto sta proprio nell’atteggiamento di opulenza ed impotenza che ci hanno abituato a sostenere di fronte a queste cruciali tematiche, che in realtà sono le prime a compromettere il nostro benessere quotidiano.

Leggere Stiglitz almeno per dare forma a quella disordinata nebulosa di idee che abbiamo sull’argomento globalizzazione, sul perché sappiamo che non si sta trasformando in un bene, ma piuttosto in male profondo che attanaglia il nostro futuro. Ma cosa ancor più importante è rendersi conto di come il modificare la nostra singola condotta possa rappresentare un bene per la collettività, in primis diffondendo la conoscenza di opere come questa.

lunedì 4 aprile 2011

Indignez-Vous! L’Indignazione del 93enne Stèphane Hessel sia da monito alle nuove generazioni

di Paolo D’Alessandro

Stèphane Hessel, 93 anni e un impegno politico che nasce dalla Resistenza francese al nazifascismo. Dopo aver condiviso l'esilio a Londra con il Gen. De Gaulle, ritorna in patria e viene immediatamente arrestato e destinato al campo di concentramento di Buchenwald, dal quale riesce a salavarsi, per ben due volte, dall'impiccagione.

Dopo la Liberazione è tra i membri che redigono la Dichiarazione Universale dei diritti dell' Uomo. Insomma, un uomo con qualcosa da raccontare ai nipoti.

“Indignez-Vous!” è il titolo della sua ultima opera che, pubblicata dalla casa editrice di due amici giornalisti, è divenuta immediatamente un successo editoriale in Francia e si appresta ad essere tradotta ed esportata in mezza Europa: in Italia Indignatevi! è stato tradotto e curato da Add Editore.

Indignatevi! è un vibrante pamphlet di circa trenta pagine, nella quali l'autore, accompagnato da una lucidità disarmante, richiama con forza i valori e principi che furono a fondamento della Resistenza.

L'indignazione fu il “motore” che spinse “i fratelli e le sorelle della resistenza” a combattere attivamente le aberrazioni totalitarie di metà secolo, e solo grazie a questo sentimento, tante persone compresero che la responsabilità civile parte dalla sfera individuale,e non può essere delegata “...né al potere né a Dio”.

Un appello affinché, anche oggi, le nuove generazioni tornino ad indignarsi di fronte alle mille contraddizioni della realtà contemporanea, dove i centri di potere si moltiplicano ed assumono forme non sempre percepibili ai nostri occhi, dove chi ha di meno è disprezzato e colpevolizzato, e dove l'indifferenza nutre il conformismo generale.

Le parole di Hessel non rimangono scatole vuote, ma, partendo dalla consapevolezza che “oggi le ragioni per indignarsi possono sembrare meno nette” tentano di smuovere le nostre coscienze rispetto ad argomenti che oggi passano nell'indifferenza generale: dal modo barbaro, con cui la politica si serve del problema immigrazione, fino ad arrivare al generale tentativo di smantellamento di quella “Sècuritè sociale” per cui lui ed altri, hanno combattuto e, fino a prova contraria, vinto.

Le ragioni per indignarsi non sembrano mancare: anche oggi, dove tutto acquista contorni meno netti e più liquidi, l'indignazione rimane quel “motore” in grado di innescare una “insurrezione pacifica contro i mass media, che propongono come unico orizzonte quello del consumismo di massa, del disprezzo dei più deboli e della cultura della competizione di tutti contro tutti”.